Le parole sono neutre, né belle e né brutte; sono gli uomini a trasformarle in insulti o delizie erotiche, dando loro significati che riflettono leggi, costumi e pregiudizi delle varie epoche.
Il contesto è importantissimo, come pronunciarle nella propria lingua o in forma dialettale, oppure usando l’ipocrisia di una lingua straniera, come l’inglese, oggi tanto in uso.
La parola assume la forma di piacevole delirio sessuale, quando nel pieno di un amplesso, lui potrebbe dire: “sei la mia puttana” (non direbbe mai sei la mia “girl”) e lei rispondere: “siii…tu sei il mio montone” (non direbbe mai sei il mio “boy”), ma fuori da questo contesto i termini usati sarebbero offese atroci.
Questione di fantasia, si potrebbe aggiungere, ma quello che in termine tecnico viene definito turpiloquio è vecchio quanto l’umanità.
Pare che le parolacce siano nate come forma istintiva a una situazione di sorpresa, pericolo o dolore o di piacere, in sostanza come sottolineatura ad una situazione emotivamente acuta.
Si tratta in genere di parole associate a comportamenti e sfere particolari, come il sesso e gli escrementi; la necessità di tenere a bada queste espressioni legittimava l’istituzione di tabù ancora oggi molto sentiti.
Ma si sa, i divieti generano il fascino del proibito, che spinge l’uomo ad infrangere le regole: così nulla stimola più di mescolare il sacro con il sesso.
Gli Egizi, i Greci, i Romani e nel medioevo facevano uso del turpiloquio in modo sfrenato ma con gravi pericoli, perché questo era un reato e si rischiava la pena di morte.
Per gli Egizi, Nefti, la dea dell’oltre tomba, era definita una “femmina senza vulva”;
il dio Thot un essere “privo di madre”; Ra il dio Sole “con la cappella vuota”.
I Greci preferivano imprecare usando nomi di vegetali ed animali, come cavolo, aglio e cane, capra, vacca.
I Romani andavano forte con termini come “stercus” (merda), “mentula” (cazzo), “futuere”(fottere, scopare), “meretrix” (puttana) e “scortum” (sgualdrina).
Nel medioevo si attingeva al mondo animale: bestia, cagna, bacalare (baccalà), iumenta (vacca), porco e scorfano.
Va ribadito che non esistono parole oscene in assoluto: siamo noi ad attribuire connotazioni emotive, che sono variate enormemente nei secoli e nei luoghi.
Un esempio clamoroso può venire dal termine “Marrano”, che indicava gli ebrei convertiti al cristianesimo e che nella Spagna medioevale era un insulto gravissimo punibile con la morte; oggi non lo usano più neppure i bambini ed al massimo si può trovare in qualche vecchio film di spadaccini.
Lo stesso vale per “rubbatore de strada” (ladro o borseggiatore) e “tu menti per gola” (bugiardo).
I medioevali erano razzisti e classisti, così si consideravano offese i termini “villano” (contadino o campagnolo) e “sannita” (montanaro), che dai romani era associato a “montani, agrestes e latrones” (montanari, rozzi e ladroni).
Non solo la provenienza, anche le professioni ed il cibo più umile generavano termini sprezzanti per ogni occasione; nel 1300 i siciliani erano “mangiamaccaruna”; i napoletani “mangia foglia”; Bologna la città delle tre “T” (torri, troie, tortellini).
Quelli che invece non sono cambiati, dal Medioevo ad oggi, sono i risentimenti scatenati dalle offese che tirano in ballo la famiglia; noto è il romanesco “fili de pute”, tuttora molto in voga, mentre hanno perso d’uso le offese di “figlio di prete” o “figlio di prevetessa” (l’amante de prete).
Certamente il più nobile è il turpiloquio d’autore, che il poeta latino Marziale così esprime: “… queste mie rimette da sollazzo, così come un marito a una moglie, non possono piacere senza il cazzo. (…) Questa è la legge del poeta smaliziato: non può piacere se non è un po’ sboccato”.
In Grecia uno dei maestri del turpiloquio fu il commediografo Aristofane, ma persino Shakespeare fu un abilissimo artista dell’offesa ed il compositore austriaco Mozart aveva un gergo escrementizio di tutto rispetto.
Infatti, il grande musicista, in una lettera scrive: “… ho fatto rime: per la precisione tutte porcherie, cioè sulla merda, sul cacare e sul leccare il culo, il tutto con parole, pensieri … ma non opere”.
Persino un santo come Francesco d’Assisi usò qualche parolaccia, si legge ne I fioretti, consigliò a padre Ruffino di cacciare il diavolo rispondendo così alle sue tentazioni: “Apri la bocca; mò vi ti caco”.
In questo caso il turpiloquio serviva a tenere lontano il male, come il nostro “in culo alla balena”; un augurio di buon auspicio.
Dunque, va demolito il luogo comune che le parolacce sono di uso popolano e le parole sante appartengono al ceto alto ed acculturato: esse sono un “patrimonio dell’umanità”.
Eppure, in Italia il reato di bestemmia è stato depenalizzato e quello di turpiloquio abrogato soltanto nel 1999.
Gli Ebrei applicavano quanto scritto nella Bibbia:”Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte; tutta la comunità lo dovrà lapidare”.
Gli Egizi punivano i bestemmiatori con la decapitazione; i Greci con il taglio delle orecchie.
Nel Medioevo “il peccato di parola” era considerato l’ottavo vizio capitale; chi fosse stato udito a pronunciare frasi indicibili subiva punizioni corporali dolorosissime.
Nel Regno delle due Sicilie erano considerate gravi ingiurie “cornuto, traditore et puctana”.
L’Inghilterra ottocentesca fu senz’altro la più intransigente: le parolacce e tutti i termini e le espressioni riconducibili al sesso vennero censurati; certe parti del corpo erano impronunciabili, così, anche chi doveva indicarle per motivi professionali dovette adottare delle perifrasi.
Forse per questo nacque il famoso “fair play” inglese: l’apoteosi della ipocrisia.